“Le ragazze bosniache puzzano”. Slogan razzista: serbo? No: olandese. Campeggia sulle pareti della caserma di Potocari, alle porte di Srebrenica, dove i caschi blu europei l’11 luglio 1995 restarono spettatori della feroce pulizia etnica condotta dal macellaio serbo Ratko Mladić, l’uomo finalmente arrestato dalla polizia di Belgrado quindici anni dopo, il 26 maggio 2011, per permettere alla Serbia di entrare nell’Unione Europea. Stratega dell’assedio di Sarajevo, Mladić sarà incarcerato all’Aja insieme al suo leader, Radovan Karadzić, nelle celle dove morì il loro capo supremo, Slobodan Milosević, portando con sé tutti i segreti della sua “guerra sporca”. L’altro macellaio, Zeliko Raznatović, detto Arkan, era già stato assassinato a Belgrado. E se per molti serbi lo stesso Mladić è stato un eroe, a lungo protetto dalle autorità locali, a evitare di dargli la caccia sono stati soprattutto gli Usa.
Lo rivela lo storico statunitense Charles Ingrao: «Non c’era nessuna volontà da parte di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna di catturare i criminali di guerra, Mladić e Karadzić in testa, protagonisti del conflitto in Bosnia». Docente alla Purdue University di West Lafayette, Indiana, il professor Ingrao ha firmato uno scottante dossier frutto di cinque anni di investigazioni, che ha visto il coinvolgimento di 300 studiosi tra storici, sociologi ed esperti dell’ex Jugoslavia. Secondo Ingrao, l’apparato militare statunitense ha fatto tutto quanto in suo potere per evitare che il generale Ratko Mladić e il capo politico della Republika Srpska Radovan Karadzić venissero arrestati.
«Tra il 1996 e i primi quattro mesi del 1997 – racconta Ingrao a Nicola Sessa di “PeaceReporter” – c’era un assoluto accordo tra Washington, Londra e Parigi affinché si mantenesse una situazione di quiescenza sulla ricerca dei due ricercati per evitare i rischi che una loro cattura avrebbe comportato». Secondo gli esperti militari del Pentagono, l’arresto dei due principali responsabili del massacro di Srebrenica avrebbe provocato un’escalation di rabbia e risentimento negli ambienti serbi provocando una minaccia seria nei confronti delle truppe straniere presenti sul territorio. Ed è su questa base che Richard Holbrooke, secondo Ingrao, ha potuto “siglare” un accordo tacito e rigorosamente orale con Radovan Karadzić: una promessa di “immunità” se avesse rinunciato al potere. Holbrooke aveva gioco facile, aggiunge Sessa, in quanto sapeva che l’esercito statunitense non avrebbe mosso un dito per arrestare l’ideologo della pulizia etnica.
«Solo successivamente – continua Ingrao – gli Stati Uniti hanno cominciato a mostrare interesse alla cattura di Mladić e Karadzić. Si può dire a partire dal ‘99-2000». Fino ad allora, infatti, la polizia militare statunitense si era mossa solo per arrestare personaggi che avevano ricoperto ruoli secondari durante il conflitto. «La cosa più importante – dice il professore della Purdue University – era non mettere in pericolo le vite dei soldati Usa impegnati nei Balcani». Il Pentagono riteneva insomma che la caccia ai due fuggitivi avrebbe reso le truppe obiettivo di attacchi da parte di nazionalisti serbi: spiegazione che consente agli americani e ai loro alleati di giustificare in qualche modo la clamorosa negligenza dimostrata nell’appoggiare le indagini di Carla Del Ponte, a capo del Tribunale Penale Internazionale.
C’è inoltre chi sospetta che il lunghissimo black-out sui criminali di guerra del conflitto balcanico – dall’uccisione di Raznatović, sanguinario leader delle “Tigri di Arkan”, all’oscura morte di Milosevic nel carcere olandese di Scheveningen – abbia messo una pietra (tombale) sui tanti misteri del mattatoio balcanico, dove Russia e Occidente giocarono partite doppie, muovendo le loro pedine in quello che si rivelò il primo drammatico teatro di confronto geopolitico dopo la caduta dell’Urss: una sfida interamente giocata sulla pelle delle popolazioni civili, esasperate dagli opposti nazionalismi resuscitati dalla preistoria balcanica per nuovi spregiudicati giochi di potere locali e mondiali, come racconta Paolo Rumiz nel suo memorabile libro-denuncia “Maschere per un massacro”.
Tesi drammaticamente confermate dall’ultima appendice dell’orrore, il Kosovo, «oggi ridotto a narco-Stato», secondo lo scrittore Massimo Carlotto, che punta il dito contro il business criminale fiorito dopo la colossale manipolazione mediatica per l’ennesima “guerra giusta”. Risultato: secondo Giuseppe Ciulla, giornalista Rai, oggi l’ex Uck che governa il Kosovo è sospettata di dedicarsi soprattutto al traffico internazione di droga, se non addirittura al traffico di organi. Conferma Carlotto: è tristemente nota la nuova “rotta dell’eroina” che da Kabul raggiunge Pristina, dove letteralmente scompare, forse al riparo della grande base militare americana. Voci, sospetti, persino indagini delle autorità inglesi. Quello che conta è che si sarebbe consolidata un’alleanza strategica fra narcos afghani e albanesi, in collaborazione con la ‘ndrangheta calabrese, per inondare di droga il mercato europeo proprio grazie all’area protetta del Kosovo.
Altri sospetti si addensano ora sulla gestione tutta politica della imminente consegna di Ratko Mladić alle autorità internazionali: nel “rapporto Ingrao”, continua Nicola Sessa su “PeaceReporter”, si legge che una speciale commissione, formata da personale statunitense, avrebbe avuto il generale Mladić “nel mirino” almeno 20 volte in un’epoca molto vicina ai giorni nostri. Si parla di un periodo di cinque mesi, che va dal febbraio al luglio 2006. Questa tendenza è stata confermata anche dal quotidiano serbo “Vecernje Novosti”: il premier svedese Carl Bildt, che all’epoca dei fatti ricopriva la carica di Alto Rappresentante Onu in Bosnia-Erzegovina, ha più volte asserito che i vertici militari statunitensi avrebbero bloccato ogni tentativo di arresto di Mladić e Karadzić da parte di olandesi e danesi.
Tutto questo non attenua – semmai, aggrava – il quadro nel quale maturò lo stermino di civili innocenti in tutta la Bosnia, dall’assedio di Sarajevo fino al martirio di Srebrenica, la “tomba” della dignità dell’Onu. I caschi blu – quelli che imbrattavano oscenamente le pareti della caserma, mostrando tutto il loro disprezzo per i bosniaci – non mossero un dito quando nella cittadina termale che avrebbero dovuto proteggere arrivarono i carri armati di Mladić. I caschi blu si sentivano colpevoli in partenza: avevano permesso a un miliziano bosniaco, Naser Orić, di attaccare il vicino villaggio di Kravica, facendo strage di serbi, a titolo di rappresaglia contro la feroce pulizia etnica inaugurata dalle forze di Belgrado. Quando Mladić riempì la caserma di Potocari di decine di migliaia di abitanti terrorizzati, ci fu un lungo momento di attesa: i serbi volevano essere certi che i caschi blu non avrebbero impedito il massacro. Così, Mladić fece sgozzare un maiale proprio sotto le finestre del comando Onu. Nessuno si mosse: era il segnale che la macelleria umana poteva iniziare.
Il martirio di Srebrenica spiega meglio di ogni altro episodio lo stupro subito dall’intera ex Jugoslavia, a partire dalla Bosnia. Parlano da sole le sterminate fosse comuni; parlano serbi, croati e bosniaci nel film “Rata Nece Biti” di Daniele Gaglianone, capolavoro assoluto premiato a Locarno. Una pellicola esemplare, che registra le ragioni di tutti per poi concludersi in una silenziosa, attonita pietà di teschi e femori, i tristi reperti dell’ossario di guerra messo insieme a Tuzla, dove medici volontari provano a rimettere insieme identità postume, civili finiti con un colpo alla nuca, donne falciate dai mitra dopo esser state violentate. Eppure, nel 2006 il ministro della difesa olandese ha decorato con 500 medaglie il “battaglione di pace” che avrebbe dovuto proteggere Srebrenica. Lo ha fatto per confortare quei poveri ragazzi, feriti moralmente dalle accuse ricevute. Erano loro, gli stessi autori di quei famosi graffiti murali: del resto, se “le ragazze bosniache puzzano”, come avrebbero potuto proteggerle?
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