La civiltà è patologica!



 Introduzione del libro:"Liberi dalla civiltà", l'autore Enrico Manicardi

Intervista di introduzione alla critica eco-radicale alla civilizzazione.

A cura di Stefano Boni (docente di Antropologia Culturale e Politica all'Università di Modena e Reggio Emilia)

STEFANO BONI: Cominciamo dall’antropologia. Ormai è accertato, per gli studi che sono stati avviati sul campo da oltre cinquant’anni, che le popolazioni non-civilizzate (quelle primitive che ancora oggi abitano il pianeta, per quanto confinate nelle zone più marginali e impervie) godono di una vita qualitativamente più viva di quella irreggimentata dai cicli del dovere economico, del consumo energetico, del potere politico e tecnologico. Cosa significa?

ENRICO MANICARDI: Significa che una volta presa la via della civilizzazione non sono più le persone che contano ma il Sistema. E tutto diventa funzionale all'espansione del sistema. Noi stessi diventiamo strumenti di quel meccanismo che prende a sovrastarci. Non contiamo più come soggetti ma solo per la funzione che dobbiamo imparare a svolgere, per il ruolo che siamo chiamati a interpretare, per la maschera che siamo costretti a portare. Sin dall’avvento delle prime società agricole l’individuo scompare per trasformarsi in contadino, guerriero, sciamano, servitore del re o re... la spersonalizzazione è la stessa.


STEFANO BONI: Vuoi dire che in un mondo che elimina l'umanità dall'essere umano la vita di un re è anonima quanto quella di un servitore del re.

ENRICO MANICARDI: Esattamente. Per quanto si sia indotti a credere il contrario, dominare non è una qualcosa che disumanizzi meno dell’essere dominato. Per comandare devi sempre esser in guardia, sotto pressione, attento che nessuno ti faccia le scarpe. Devi trattare gli altri come fossero oggetti, e imporre loro cose che ripugnano alla sensibilità di ognuno (mentire, ingannare, punire, uccidere...). E poi, una volta conquistato il potere ci si accorge che il potere non basta mai: che se ne vuole sempre di più. E allora occorre essere ancora più funzionali a questo obiettivo, ancora più privi di scrupoli, aggressivi, prepotenti, disumani... La felicità non è mai nella conquista del potere ma nella capacità di saper vivere senza; nella capacità di tessere relazioni che ne prescindano in tutto e per tutto. Ed è proprio questo che ha reso le popolazioni primitive più felici di quelle civilizzate. Ancora oggi, laddove non sono state sterminate proprio dalle smanie insaziabili di potere del mondo civile, i Popoli della Natura vivono: si amano, giocano, danzano, ridono, scherzano, si aiutano tra loro, e fanno raccolta di vegetali in compagnia. Mentre noi ci massacriamo tutto il giorno dietro a una catena montaggio, dietro ad una pila di pratiche inutili da sbrigare, dietro alla cassa di un negozio a battere scontrini, queste persone vivono. Mentre loro godono del loro tempo, noi corriamo come forsennati per non si sa cosa; mentre loro condividono la vita, noi ci azzuffiamo per un parcheggio, per un'ultima offerta al supermercato, per un posto al cinema... Inoltre, ogni mattina, costretti come siamo a recarci al lavoro, dobbiamo allontanarci per tutto il giorno da quello che ci è più caro: i figli, i nostri compagni/e, i genitori, gli amici, i nostri divertimenti, le nostre compagnie... Se ci pensi la cosa è semplicemente delirante. Eppure, quel Sistema al quale la civiltà ci ha messo al servizio, c’impone questo. Che assuma la forma di una dittatura militare, di un regime confessionale o di una democrazia parlamentare, non cambia: ogni mattina, nel mondo civilizzato, siamo tutti obbligati a cessare di essere persone per diventare appunto i meccanismi che rendono possibile il funzionamento dell’Apparato: i funzionari burocratici, gli imprenditori di successo, gli affaccendati impiegati di un’azienda, i professionisti irreprensibili, i professori inflessibili, gli artisti (più o meno) di grido. Tutti col nostro bravo “grembiule”, con la nostra divisa... Tutti pronti ad eseguire gli ordini che ci verranno impartiti, o a fare il possibile per vendere di più, per convincere tutti, per ingannare chi non sia abbastanza scaltro e si lasci abbindolare...

STEFANO BONI: E la civiltà in che modo sarebbe a capo di questo processo di progressiva disumanizzazione?

ENRICO MANICARDI: Qualunque sia la diversa connotazione di costume che la civiltà ha assunto nel tempo e nello spazio (dalle antiche società Mesopotamiche a quella Occidentale moderna), essa è sempre stata caratterizzata dalla presenza un unico minimo comune denominatore: il distacco dell’individuo dalla natura e l’affermazione di un dominio del primo sulla seconda. Non è certo un caso che, comunemente, la civiltà sia fatta sorgere proprio con la comparsa dell’agricoltura (circa diecimila anni fa). Dissodare un terreno, affondarvi un vomere per romperne e rivoltarne le zolle significa non considerarsi più un tutt’uno con quell’elemento: significa concepirlo come qualcosa di separato da sé e passibile di essere trattato come un oggetto. Solo gli oggetti possono essere usati e sfruttati. Prima dell’avvento della civiltà ogni essere umano si considerava un elemento del tutto. Quella che noi chiamiamo “Natura” era percepita come un tutt’uno organico del quale anche l’esser umano faceva parte: era considerata una madre. Come disse Smohalla, profeta indiano della tribù Wanapum: «Mi chiedete di lavorare il terreno. Potrei forse prendere un coltello per conficcarlo nel seno di mia madre?»

STEFANO BONI: Questa sensibilità è molto lontana da quella che abbiamo maturato oggi.

ENRICO MANICARDI: Infatti. Con l’avvento dell’agricoltura venne materialmente infranto questo sentimento di unione. Perduta quella sensibilità abbiamo assistito ad un’accelerazione progressiva di ogni distruttività ecologica e sociale. Dominata la terra (agricoltura) tutto è diventato dominabile: gli animali (allevamento), le donne (società patriarcale), tutti gli altri (schiavitù, lavoro salariato, massificazione, burocratizzazione della vita). È così che siamo diventati gli anonimi ingranaggi della Megamacchina.

STEFANO BONI: Come sarebbe una vita liberata dalla civilizzazione?

ENRICO MANICARDI: Sarebbe una vita senza più ruoli da impersonare, senza più maschere da indossare, senza più balle da raccontare, ordini da rispettare, cartellini da timbrare, bollette da pagare, incombenze snervanti da sbrigare. Insomma: una vita meravigliosa! Eppure, nel mondo in cui viviamo, la domanda che mi hai fatto non soltanto ha smesso di trovare quelle risposte capaci di animare la nostra volontà di reazione, ma ha smesso proprio di essere un interrogativo che ci poniamo. Tutti sappiamo bene quanto sia qualitativamente scarsa una vita costretta dai meccanismi del mondo moderno (burocrazia, produzione, consumo, efficienza, concorrenza, obbedienza, conquista, devastazione ambientale…), ma questo universo sta diventando talmente pervasivo e totalizzante che ormai stiamo smarrendo anche la capacità di immaginare come potrebbe essere la nostra esistenza se potesse scorrere in un contesto ecologicamente preservato, socialmente libero e relazionalmente vivo. Ci stiamo rassegnando ad accettare la nostra condizione di animali in gabbia.

Da diecimila anni viviamo condizionati dai modelli, dai valori, dai corsi obbligatori di un Sistema che ci ha via via trasformati in suoi accessori intercambiabili. Più veniamo ridotti ad accessori, più smettiamo di porci domande sul perché siamo stati ridotti così. Oggi, lo abbiamo detto, non contano più le Persone, non conta più la Natura o i processi della natura: contano le macchine, la produttività, la concorrenza economica, lo sviluppo… Noi siamo solo rotelle funzionali all’espansione della Grande Macchina: rotelle che quando smettono di funzionare debbono essere gettate tra i rottami.

STEFANO BONI: Eppure la nostra vita è tutta calata nell’abbondanza di un mondo che siamo abituati a considerare ricco. Com’è possibile pensare che questa vita sia così qualitativamente scarsa?

ENRICO MANICARDI: Perché la civiltà ci riempie appunto di cose che ci fanno sentire ricchi, e c’insegna a considerare la ricchezza come un possesso di cose. In realtà, mentre ci riempie di cose, il mondo civile ci svuota di relazioni, di emozioni, di sentimenti, di esperienze personali. Ci toglie insomma tutta la nostra umanità. Nel mondo edulcorato in cui viviamo, tutto sembra sempre a posto, ma sotto il velo tecno-luccicante della realtà in multimedia che appare davanti ai nostri occhi, si nasconde una quotidianità assai poco attraente per tutti. E se ci pensiamo un po’, tutti ne siamo consapevoli. Le giornate ormai si susseguono le une alle altre in modo meccanico: sempre più ripetitive e vuote, schiacciate dal peso logorante del lavoro produttivo, esaurite dalla noia del “tempo libero”, immerse in un isolamento esistenziale sempre più doloroso, consumate dai cicli obbligatori del dovere e della disciplina. Non gioiamo più, sgobbiamo; non comunichiamo più, chattiamo; non ci amiamo più, ci possediamo. Siamo stati espropriati di tutte le abilità umane: le mani non ci coadiuvano più, muovere le gambe ci è diventato faticoso, non riusciamo più a procurarci il cibo da soli, non sappiamo più fare affidamento sui nostri sensi e sulle nostre sensazioni interiori. Senza un medico non riusciamo più a capire i nostri stati di affezione; senza un educatore non riusciamo più a far crescere i nostri figli; senza un professionista non siamo più in grado di risolvere le nostre controversie personali. Sappiamo soltanto schiacciare tasti, digitare password, seguire i percorsi guidati per accedere al servizio. All’interazione umana abbiamo sostituito l’interattività multimediale, alla relazione viva e sensuale la virtualità. Senza il nostro mondo reale anche noi ci stiamo trasformando in entità irreali, interfacce telematiche, nickname. Nella nostra vita non c’è più fisicità, entusiasmo, soddisfazione, unione, convivialità. Solo attesa, ansia da prestazione, merito, bisogno di sfogare frustrazioni o rimuovere disagi.

STEFANO BONI: Ma questo è l’esito di un mondo che ha smesso di guardare all’essere e ha cominciato a preoccuparsi dell’avere.

ENRICO MANICARDI: Esattamente. Più cerchiamo di avere, più smettiamo di essere.

Tutto si paga nel mondo incivilito; tutto si riscuote, si scambia. Tutto si usa e si consuma. Non c’è più il desiderio di “dare” ma solo la preoccupazione di “prendere”, di arraffare il più possibile, di fare i “nostri” interessi. È l’Economia che ci a posto nella condizione di pensare che abbiamo interessi contrapposti a quelli degli altri e che per perseguire questi interessi particolaristici dobbiamo accettare di vivere nella guerra di tutti contro tutti. Una volta eravamo motivati dal bisogno di offrire: offrire conforto, aiuto, gioia, soddisfazione, compagnia, amicizia. Ora conta solo portare via, avere di più, stare sopra a tutti... Nei fatti, la civiltà ci ha resi persecutori di noi stessi. L’oppressione, insomma, non è più soltanto nelle galere, nelle fabbriche, nelle piazze; è anche dentro di noi. Trasformati in secondini della nostra vita ubbidiamo, corriamo a un ritmo sempre più folle con la sola prospettiva di non perdere il passo, mercifichiamo tutto e tutti, consumiamo tutto e tutti, calpestiamo tutto e tutti.

STEFANO BONI: E il nostro odierno rapporto con la Natura?

ENRICO MANICARDI: Nel mondo incivilito non esiste più alcun rapporto con la Natura (se non in termini di sfruttamento). La Natura è sempre più messa in disparte. Essa non è più il nostro punto di riferimento: quando non è vista come un idolo maligno che terrorizza tutti (calamità, cataclismi, belve feroci) è considerata anch’essa alla stregua di un oggetto di cui servirsi, una cosa da ridurre ai nostri bisogni di dominatori insaziabili, una risorsa. Abbiamo cominciato diecimila anni fa col dominare le terre e oggi abbiamo soggiogato tutto, depredato tutto, devastato tutto: i suoli, le piante, gli animali, le energie della Terra, gli esseri umani, noi stessi... Nulla è più genuino e spontaneo; nulla è più reale ed autentico: tutto è mediato, riprodotto, forgiato, virtualizzato...

STEFANO BONI: Quell’atteggiamento antropocentrico che ci consente di considerarci i padroni del mondo, si sta ritorcendo contro il mondo intero?

ENRICO MANICARDI: Contro il mondo intero e contro noi stessi che siamo parte integrante di questo mondo. La distruzione della Natura che vive fuori di noi coincide infatti con l'esaurimento di quella che vi alberga dentro. Abbiamo smesso di agitare la nostra libertà e invochiamo licenze e permessi; abbiamo smesso di cercare gratificazioni e reclamiamo titoli e onorificenze. L’esteriorità, che definisce in maniera esemplare i confini di un universo sempre più superficiale e sbrigativo, regna sovrana. Ormai si guarda alle etichette dei vestiti, alle marche di moda, alle opinioni della maggioranza. Conformismo, massificazione, omogeneizzazione sono diventate il pane quotidiano di un Mondo-Macchina che ci sta trasformando in macchine: freddi come le macchine, insensibili come le macchine, produttivi ed efficienti come le macchine. In questo universo civile, sempre più disumano, la regola è fin troppo chiara: si consuma e ci si consuma, si vende e ci si vende, si uccide e ci si fa ammazzare.

STEFANO BONI: Una situazione al limite del collasso.

ENRICO MANICARDI: Purtroppo sì. Ed è per questo che dobbiamo cercare di reagire; è per questo che dobbiamo cercare di sviluppare una chiara sensibilità anticivilizzatrice da opporre al potere assorbente di questo mondo-morto che ci sta uccidendo.

Talmente siamo condizionati da questo universo in decomposizione che persino il desiderio di una vita da godere liberamente si sta trasformando nel maniacale bisogno di trovare una semplice tregua, un sollievo temporaneo, un momento di quiete che ci consenta di riprendere fiato per poterci rituffare, con rinnovato vigore, nei flussi costrittivi dell’autorepressione quotidiana. È a questo che serve l’industria dell’intrattenimento, il cinema, l’arte, la religione, il mito del progresso, dello sviluppo, e tutte le altre infinite “esche” che ci vengono propinate ogni giorno per controllare e spegnere la nostra potenziale capacità di ribellione. Ammiriamo i colori di un nuovo artista che “ravvivano” le pareti grigie delle celle abitative in cui alloggiamo e abbiamo smesso di incantarci per il blu del cielo, per i colori di un fiore, per il profumo della Primavera… Più la frustrazione aumenta (attenuata solo falsamente dai palliativi), più il disagio diventa incontenibile. Violenza, malattia, insensibilità diffusa, bisogno drogato di essere distratti, divertiti, sballati, rassicurati, fanno da specchio alla smania sempre più dilagante di manipolare tutto, di comandare tutti, di essere adorati e venerati da tutti.

Nel mondo civilizzato della società-spettacolo stiamo sempre peggio. Ed ogni spettacolo in più, ogni divertimento comandato in più, ci estranea maggiormente dai nostri bisogni e dal nostro ambiente. Sono le cause della “malattia” che dobbiamo cominciare a curare, non gli effetti.

STEFANO BONI: Ma il mondo civile guarda da sempre agli effetti e non alle cause delle malattie. Noi temiamo la febbre, non le cause che l’hanno determinata. Se abbiamo male a un braccio non ci curiamo del perché ci duole l’arto, ma solo di come si possa eliminare prima possibile quel dolore...

ENRICO MANICARDI: E infatti, nulla nel mondo progredito è in grado di farci stare bene. Avanzamenti di grado, status, potere, soldi non ci bastano mai. Continuiamo a compensare il nostro essere meno con l’avere di più e questo è il modo sicuro per sprofondare continuamente nel malessere. Quel che ci manca, infatti, non sono le cose e i servizi, non è un maggior rigore ascetico o la capacità di essere sempre più funzionali al Sistema che ci sovrasta, integrati e omologati come tutti gli altri: ci manca la serenità di una vita piena fatta di calore relazionale, di contatti umani, di convivialità; ci manca il desiderio di potersi dare una mano, di sentirsi uniti alla Natura e ai nostri cari; ci manca la possibilità di vivere una vita affettivamente solida, gratificante, allegra, partecipata. Una vita in cui le nostre inclinazioni non siano continuamente soffocate dalla morale corrente, dal conformismo, dal giudizio degli altri, dall’ipocrisia perbenista che stabilisce restrizioni per tutti. In un concetto solo, siamo stati derubati della gioia di vivere.

STEFANO BONI: Non pensi che la civiltà possa rimediare a questo stato di desolazione con i propri mezzi, offrendoci l’opportunità di costruire un mondo migliore?

ENRICO MANICARDI: E’proprio lì il problema: noi non abbiamo bisogno di costruire un bel nulla. Dobbiamo smettere di costruire, tecnologizzare, cementificare, forgiare, snaturare… La civiltà, che è proprio ciò che ci ha calato in questa desolazione, non opera per farci recuperare un rapporto vivo con la terra, con i processi della natura, con ciò che esiste dentro e fuori di noi. Essa agisce esattamente nella direzione opposta: sovrappone tecniche, manipolazioni, obblighi. Più la civiltà si svilupperà, più noi saremo estraniati dal mondo naturale e da noi stessi per essere posti al servizio dei rimedi artificiali del mondo che la sostiene, la celebra e ce la impone ogni giorno. Pensa solo al paradosso della tecnologia ad alta fedeltà. Alta fedeltà vuol dire massima somiglianza con il reale. Insomma, stravediamo per ciò che simula quasi perfettamente il reale e non per il reale… Lo stesso vale per la socialità. Crediamo di esserci arricchiti per il fatto che, grazie ad internet, siamo in grado di comunicare con qualcuno dall’altra parte del globo, e intanto abbiamo smesso di parlare con i nostri cari, con i nostri figli, con i nostri vicini… Una volta un ragazzo cui piaceva intontirsi per giornate intere con la navigazione telematica, mi confessò che era arrivato ad interessarsi delle questioni condominiali del palazzo in cui abitava; e ciò non perché quelle questioni fossero particolarmente interessanti, ma perché le riunioni condominiali erano ormai l’unico momento in cui poteva vedere persone vere e sentirne il calore…

STEFANO BONI: Quello dell’isolamento esistenziale portato dalla tecnologia è davvero un problema che ha riflessi e conseguenze profonde proprio sulla nostra condizione umana.

ENRICO MANICARDI: Certo. Nei paesi a tecnologia avanzata, come il Giappone, la questione sta diventando addirittura drammatica. L’Hikikimori (isolamento volontario) sta dilagando e colpisce ormai più di un milione di giovani: persone che stanno rinchiuse nelle proprie piccole stanze per anni…

STEFANO BONI: E poi ci sono le problematiche legate alla tecno-dipendenza.

ENRICO MANICARDI: Proprio così! Disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, ansia, attacchi di panico sono solo le conseguenze più comuni che ormai coinvolgono un giovane su tre. Abbiamo perduto il piacere di vivere e quello che ci è stato messo sotto il naso al suo posto (tecnologia, economia, potere, cultura, paura) non ci fa certo stare meglio.

STEFANO BONI: Cosa potremmo fare per ritrovare il perduto piacere di vivere?

ENRICO MANICARDI: Le ricette magiche non esistono: non si trovano nei programmi dei partiti e nemmeno nelle aspettative autoritarie di una nuova legge; non si trovano nelle prospettive di riforma dell’economia e tanto meno nelle rassicurazioni dei vari Furboni della tecno-sostenibilità. Ogni tanto compare qualche nuovo recuperatore sociale che ci racconta che basta decrescere, basta mangiare biologico (o biodimanico), basta cambiare religione e tutto si sistemerà. E intanto ci consiglia di continuare a credere nell’Economia (verde s’intende!), nella Politica (democratica, s’intende!), nella tecnologia (quella a basso impatto ambientale, s’intende!). Non è questa o quell’altra teoria economica che ci ha portato sull’orlo del disastro: è l’Economia con la sua ideologia utilitaristica e produttivistica. Non è questo o quell’altro processo tecnologico che ci sta togliendo la vita di dosso: è la Tecnologia con il suo potere d’invasione nella Natura e nel Vivente (biotecnologie, nanotecnologie, microimpiantistica, robotica…). Non è questa o quell’altra corrente politica che ci sta rendendo succubi della politica (e dei politiconi che ne approfittano): è la Politica in sé. Quell’universo civile che ha trasformato la gratuità in credito, che ha tramutato la giovialità in senso del dovere, che ha ridotto la vicinanza in solidarietà formale e che ha spezzato ogni complicità ponendoci gli uni contro gli altri (e tutti contro tutti), deve essere fermato. LA CIVILTÀ È PATOLOGICA! Come un cancro si sviluppa dall’interno dell’organismo attaccato, lo distrugge silenziosamente, a piccoli passi, ed è sempre più difficile combatterla perché cresce nutrendosi degli stessi processi vitali che animano l’organismo aggredito.

Per ritrovare una vita da immergere nel piacere sensuale, ricca di desiderio, da godere istante per istante, dobbiamo cercare di ritrovare la nostra vita. Liberarla dalle pastoie di una moralità castrante che trasforma le persone in una funzione sociale; liberarla dai ricatti di un sistema di prestazioni e controprestazioni che trasforma l’esistenza in un affare; liberarla dal ticchettio di un tempo meccanico che c’incalza inesorabile ponendoci al servizio dei processi produttivi. Liberarla dalle macchine che ci tolgono ogni sensibilità, dai moniti di efficienza che ci rubano il piacere di essere dispersivi e gioiosi; liberarla dai politicanti, dai santoni, dai profeti della sostenibilità che ci avvinghiano con sempre maggiore forza a questo universo insostenibile. Per ritrovare il piacere di una vita da vivere, insomma, occorre liberarla dal dovere di collaborazione verso tutto ciò che ci rende anonimi meccanismi della Civiltà.

Attraverso il peso opprimente delle sue categorie, dei suoi valori, dei suoi processi pervasivi che invadono la vita di tutti, la civilizzazione ci addomestica allontanandoci dalle nostre sensibilità e dal mondo vivente. Prima che sia troppo tardi dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di pensare, di sentire, di agire: opporci al dilagare di quel decorso devitalizzato che ci sta annientando e rimetterci in contatto diretto con la natura selvatica che vive dentro e fuori di noi. Se non stravolgeremo subito quel modo di vedere le cose che ci eleva a dominatori del mondo, ne resteremo tutti stravolti e soffocati. Se non accetteremo subito di riassegnare alla Natura il significato di “soggetto” (e non di “capitale”, “prodotto”, “risorsa” da sfruttare), resteranno solo oggetti e servizi. Se non ci affretteremo a rimettere la vita nelle nostre mani perderemo tutto: la possibilità di vivere liberamente e persino la capacità di reclamare questo desisderio.

Quello che resta dell’esperienza degli ultimi popoli indigeni vicini alla terra non ha bisogno di interpretazioni per essere compreso: senza la volontà di dare rilievo al vissuto primitivo di questi ultimi Popoli della Natura, di quella loro preservata armonia interiore e sociale che conduce all’etica del dono, del mutuo appoggio, del buon senso, e dunque a una vita immersa nella condivisione, nell’uguaglianza, nell’autonomia, nella felicità, resterà soltanto il deserto della civiltà!

«…non è la vita in sé ad essere insopportabile, è la mentalità con la quale la conduciamo da diecimila anni che ci tormenta. Non è il mondo che fa schifo, ma quell’artificio autoritario e tossico che stiamo sovrapponendo a un esistenza libera e selvaggia».

fonte:
www.enricomanicardi.it